Ricordi….

Tutte le sere si andava a fare un bel giro in bicicletta lungo la fondovalle, in mezzo alle montagne, ai calanchi e al lato del nostro fiume.

Tutte le sere dopo aver studiato per l’esame.

Tutte le sere per smaltire chili e tenersi in forma.

Si pedalava – non con troppa spinta – per poter chiacchierare di tutto.

Tu, ogni tanto, ti accendevi pure una sigaretta. Dicevi che il tuo medico ti aveva suggerito di bere molto latte, così avresti neutralizzato gli effetti nocivi del fumo.

Dicevi anche che il tuo fidanzato era l’uomo della tua vita, che anche se eri sempre stata un’inguaribile cazzona, ora ti eri innamorata che non riuscivi a capirlo nemmeno tu.

Parlavamo dei tempi della scuola, sembravano lontanissimi e i nostri comuni compagni un mondo a parte.

Parlavamo di amore ma soprattutto di vacanze e di libri.

Parlavamo di musica e di cose da fare con l’estate.

Guardavamo la luce che si specchiava, traversa nel tramonto, dentro al fiume e pensavamo alle grigliate che avremmo fatto.

Tu volevi cambiare facoltà universitaria. Anche io, ma non osavo dirlo a me stessa.

Tu volevi partire per un lungo viaggio. Io non sapevo se la mia vita mi piacesse.

Entrambe avremmo scoperto presto sia i lunghi viaggi che i cambiamenti. Ma non ora.

Ora si pedalava e si chiacchierava, come due amiche. Due amiche di vent’anni.

Di strada ne avevamo percorsa tanta e i miei mi aspettavano per cena ma io bucai una ruota della bici.

Alla fontanona scendemmo e proseguimmo a piedi. Ero irritata all’inizio. Perché era tardi. Perché di sera dovevo uscire e i miei mi avrebbero fatto il culo se non tornavo in fretta.

Poi, non so come ci siamo messe a parlare di noi, per davvero. Io ti ho raccontato delle mie paure, del mio senso di vuoto familiare, dell’inadeguatezza di me stessa in mezzo agli altri. Ti ho raccontato di uno strano sogno che avevo fatto, tu cambiavi casa e non mi davi il tuo indirizzo. Io ci rimanevo male, fin quando tu non venivi a trovarmi e mi portavi a mangiare nel tuo giardino, in mezzo alle nebbie della bassa. Tu ridesti, dicendo che il numero delle nebbie, dovevo star serena, me lo avresti dato.

Tu mi hai raccontato di quando tua mamma era stata – mesi – in ospedale, di quanto avevi avuto paura, di quanto lei fosse stata brava a nascondere le sue ansie e così, magicamente, era tutto passato.

Il sole era una palla enorme ai nostri piedi, davanti a noi. Il crepuscolo avanzava, le zanzare cominciavano a pungere.

Noi ci sentivamo belle e curiose e anche un po’ onnipotenti.

Io volevo lasciare il ragazzo che frequentavo.

Tu il tuo te lo saresti sposato.

Io odiavo la matematica e la scelta universitaria che mio padre mi aveva imposto, tu sognavi l’architettura e Firenze.

Ad un certo punto arrivammo al bivio. Fu allora che mi prestasti la tua cassetta. C’era incisa su la canzone “mi metto in tasca una piccola mela” di De Gregori.

Mi sorridesti e mi chiamasti – con la dolcezza che era tua – “biscottino dolce”.

Mi salutasti con la mano, mentre prendevi la tua strada. Avevi i riccioli scomposti e il sorriso grande, fatto di denti bianchi sull’abbronzatura.

Ci incamminammo verso casa e io ringraziai il cielo per le belle amiche che avevo, per quei momenti unici in cui, con la musica, riuscivo ad assaporare proprio tutto con pienezza, la pienezza della vita.

Tre giorni dopo saremmo dovute uscire.

Tanto per cambiare litigai con mio padre e non ebbi voglia di farlo.

Ti telefonai per dirti che “ci saremmo viste presto, scusa ma non ce la faccio stasera, ti farei passare una serata orrenda!”

Quella stessa sera, con l’uomo della tua vita, salisti su di una moto. Quella stessa sera, per te non ci fu più domani, niente architettura, niente viaggi, niente matrimonio o figli o cazzate o sigarette e birra.

Quella stessa sera la mia vita cambiò.

Non rimando più di dire alle persone che voglio loro bene.

Non rimando risate, viaggi o cambiamenti.

Ho mollato la facoltà che scelse mio padre per far quello che volevo.

Ho mollato quel fidanzato che non amavo.

Mi sono messa a lavorare per mantenermi con dignità.

L’ultima volta che ti ho vista, lungo il fiume, era il 20 luglio 1993. Sono passati 13 anni esatti.

Ascolto sempre De Gregori e sto per avere una figlia…un piccolo biscottino dolce che si chiamerà come te.

Au revoir Silvia….

3 commenti
  1. nandina dice:

    “la figlia del dottore sa cantare, la figlia del dottore sa cantare… e mi piace poi tanto quel suo modo di far, forse un giorno faremo l’amore…”

    Sembrava d’esserci lì con voi, con le bici e i mille discorsi… grazie per avere condiviso questo ricordo così intenso e doloroso.

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