Mondi paralleli dietro agli sportelli

In questo periodo ho molte incombenze, legate a tutta una serie di situazioni che non vò a spiegare.

Molte di queste incombenze sono emotive, ma hanno anche delle basi burocratiche da risolvere.

Così ieri ho dovuto fare alcuni giri presso uffici comunali dei più vari e in cui prima non avevo mai messo piede.

Mi ha accompagnata la mia amica Babi che è avvocata e ne sa una più del diavolo. Valido supporto.

Una mattina che si prospettava angosciosa e a tratti noiosa si è trasformata un’avventura ai limiti del paranormale.

Molto divertente.

Quando arrivi in un ufficio comunale, la prima cosa che ti chiedi è perché gli abbiano dato un nome talmente nerchioso che anche tu – che modestamente sei una fine umanista – senza uno Zanichelli a portata di mano, riesci a capire cosa cazzo significhi e – cosa ancor più importante – quale funzione rappresenti.

Robe come “ufficio delle imposte salameccose” o “tributi concessionari in via del tutto eccezionale a fini pubblicistici” le leggi di norma, all’entrata di qualunque ufficio.

Tu, che sei lì per “fare una pratica che dovrebbe farti vedere una cosa che non conosci tanto bene ma sai che c’ha a che fare con le tasse pagate negli anni prima” quando leggi, tra le indicazioni dei piani, questo genere di nomi, c’hai un giramento di testa.

Un po’ come quando devi compilare dei moduli in posta o in banca, che soppesi e misuri ogni parola e ti rendi conto che quelle parole lì esistono solo in posta e in banca. Ti viene da pensare che si sono concretizzate in quell’istante, non può essere altrimenti, perché in tanti anni di uso e abuso della lingua italiana, non ti avevano mai richiesto una cosa del genere.

Così quando devi decidere a che ufficio rivolgerti in comune, a che piano devi salire. Rimani come un beota di fronte al cartello che indica le varie strutture del palazzo a chiederti dove hai studiato, arrivando a dedurre che forse hanno fatto male a promuoverti, fin dalla terza elementare.

Per fortuna ieri c’era la babi, che allo Zanichelli burocratico gli fa un sonoro baffo.

Arriviamo al primo ufficio di competenza e mi applico alle mie richieste, compilando un modulo di dati.

Tutto fila via liscio che non ci credo.

Fin quando non devo saldare il conto per gli atti che gentilmente mi donano. In quel momento, la Babi si accorge di una telefonata che non ha sentito sul cellulare, roba di lavoro e si sposta di qualche passo per richiamare.

Il solerte impiegato che chiameremo CrapaPelata la vede prendere in mano, decisa, il cellulare.

Più solerte di un capobranco lupesco la guarda dritta negli occhi, in segno evidente di sfida. Tira su il ditino, come faceva la tua maestra delle elementari.

“Non faccia mica riprese qua dentro eh? L’ho vista eh che ci vuole riprendere!” intima severo.

La mia fida compagna ed io lo guardiamo come con i matti ed entrambe pensiamo ad una goliardata, un modo divertente per emanciparsi dal proprio mezzobusto allo sportello.

E invece CrapaPelata prosegue molto serio:

“ci sono le telecamere puntate su di lei. Non faccia la furba che la vedo e rimane traccia!”.

La Babi è certo una bella donna alta e imponente ma non indossa doppiopetto ne’ occhiali a specchio. Vai tranquillo, caro CrapaPelata, non lavora per le Iene!

Usciamo ridendo, mentre la sottoscritta abbozza un “richiamiamo la troupe, che peccato!”.

Con il gusto agrodolce della mente contorta della burocrazia, pensando che forse CrapaPelata e compagniabella c’hanno qualcosina da nascondere che si sente ancora l’odore di paglia fumante provenire dalla coda…

Ci dirigiamo nel secondo ufficio, dove devo chiedere un atto che riguarda la di me persona.

In codesto luogo ci sono 5 persone in fila e l’impiegata entra nel pallone. Ci sediamo al nostro turno e sembra di stare di fronte al confessore, solo che al posto del prete c’è una zdaura, talmente zdaura che ti immagini che non indossi le scarpe ma un paio di ciabatte di quelle che indossano le zdaure, fatte a sandalo felpato, con le dita che escono sul davanti, dita inguainate in un bel paio di gambaletti color carne.

La zdaura in questione mi chiede cosa debbo fare. Glielo dico. Faccio però l’errore, mentre essa digita sul piccì, di chiedere anche un’informazione aggiuntiva sui nidi comunali, per la mia piccola frollina.

E allora la zdaura corruga la fronte e me la vedo, con le dita dei piedi che si tendono e rapprendono, dentro alle calze color carne, dentro alle ciabatte in felpatino chiaro.

Mi entra in crash di sistema la zdaura.

E mentre la stampante sputacchia fuori i documenti lei mi guarda e mi dice:

“ecco perché non usciva l’informazione x; perché lei è emigrata…anche i suoi genitori sono emigrati, doveva dirmelo…”

Io faccio mente locale. Penso che si, per qualche tempo ho vissuto a Milano e a Torino ma non possiamo propriamente dire che sono emigrata.

Penso a mia madre. L’ho chiamata una mezz’ora prima in ufficio, era ancora là, nel cuore della Rossa Bologna.

C’è un errore, un complotto volto a confondere le acque sulla mia famiglia, un modo perverso per mischiare le carte e renderci invisibili.

Probabilmente si tratta di una manovra della destra per raggranellare voti. Gente che vive a Bologna ma in realtà risulta emigrata in Papuasia…

“No” dico alterata e ansiolitica alla zdaura “non siamo emigrati, glielo giuro, mia mamma lavora in via z…”

Lei mi guarda e intanto il capello cotonato prende un’onda che tende a sinistra. Mi guarda ed ha uno sguardo un po’ bovino, di chi in realtà sta pensando che non ha fatto il ragù, accidenti il ragù e oggi viene mio figlio a pranzo…

Continua a dire cose sulle migrazioni della mia famiglia e io penso alle rondini.

Per fortuna la Babi – che c’ha il polso della situazione – blocca il mio sproloquio con una mano sulla gamba.

“No Panz, stai tranquilla, non pensa che tu sia emigrata in India…intendeva dire migrata dal paesello alla città…”

Ahhh

Ok

In effetti, quando anni fa mi sono trasferita dal paesello, ben lungi 15 grassi kilometri dall’urbe, in effetti se un amico mi chiamava e mi chiedeva “dove cazzo sei finita? sono mesi che ti cerco a casa e non risponde nessuno…” io serafica ci rispondevo che mi spiaceva, ma se non mi trovava era perché

sono migrata.

Ce l’ho detto anche al fruttivendolo quando sono venuta a vivere con Tino e mi parlava di frutti con nomi strani e per me incomprensibili.

“Scusi sa, mi perdoni, ma sono migrata.”

E forse devo ancora abituarmi al fuso.

5 commenti
  1. Chiara dice:

    Mi ricorda tanto una surreale riunione presso la parrocchia di S.Saba, Roma, in cui i parrocchiani indigranti accusavano il parroco di aver dato il campo di calcetto in gestione a stranieri. Io e il mio collega Ahmad, presenti perché il nostro centro di accoglienza si trova fisicamente all’interno dell’oratorio, ci guardiamo con aria interrogativa. Ma poi risulta che gli “stranieri” sono romani purosangue, ma residenti a Testaccio (500 metri circa?). Ahmad all’uscita commenta: “Ma se sono stranieri quelli, io che sono iraniano che sono?”. Non ho saputo rispondere.

  2. sonia dice:

    Ma senti un po’, se faccio due conti kilometrici, se tu sei migrata, metà dei miei geni cosa sono?!?!?! extraterrestri?!?!
    Hai capito perchè tra l’utente e l’impiegato ci son quei bei vetri col microfonino che non si sente una cicca? Per evitare che l’utente superi il bancone e prenda a ceffoni e sberleffi l’impiegato! Elementare!

I commenti sono chiusi.