L’attesa

L'attesa - fonte: villatelesio.wordpress.com

Non le importava più se quella mattina il compito in classe di Latino (o di Greco?) era andato male, non le importava nemmeno se quella snob della sua compagna, quella con la coda di cavallo, come al solito aveva fatto di tutto per escluderla dall’uscita serale.

Forse le era importato di quel brufolo sulla guancia, ma solo per un po’, poi aveva pensato che lui non ci avrebbe  badato più di tanto, lui che andava oltre, lui che l’amava in un modo che nessun altro poteva capire o nemmeno immaginare.

Ora le importava di quell’appuntamento. Non vedeva l’ora che suonasse il campanello, che lui facesse capolino sulle scale, che insieme scendessero nelle luci del Natale.

Eccole lì le luci del Natale, dai negozi di sotto si arrampicavano alla finestra di quella stanza. La sua stanza.

Ma era sempre stata così triste?

Non lo ricordava.

Ma chi se ne frega, tanto ora esco con lui, mi prende per mano, infilo il dito in quel suo pugno forte e via, verso il mondo, verso la vita!

Lui ogni tanto le aveva scritto delle lettere, alcune le aveva anche profumate. Una in particolare la rileggeva spesso. Veniva dalla Puglia. Le aveva scritto una lettera che era d’estate e vacanza e loro erano lontani.

Lui aveva le spalle larghe, larghe come il mondo in cui lei voleva vivere per sempre. Gli occhi neri erano il mare in cui i suoi 16 anni si tuffavano e sembrava sempre che saper nuotare, in quel mare, non avesse alcun significato.

Prima di uscire con lui si lavava e pettinava i capelli, i suoi capelli ricci. Che strano, quei ricci, quei capelli che le aveva fatto la parrucchiera, tanto belli, si sgonfiavano sempre. Prima di uscire con lui sceglieva per un’ora i vestiti nell’armadio. Tutto doveva essere come se lo era immaginato nella settimana appena passata.

Per fortuna aria. Per fortuna esco. Per fortuna oggi è sabato!

Le regole della casa erano rigorose. Durante la settimana si studia, si va ad allenamento, si torna a casa e si studia di nuovo. Nessuna eccezione.

Il sabato pomeriggio aveva carta bianca.

Si era anche truccata per bene. Le ciglia allungate, il rimmel sfumato, la cipria sulle guance.

Non era mai soddisfatta, si vedeva sempre così brutta, si sentiva sempre così inadeguata. Non capiva, davvero non capiva come fosse che lui la guardava sempre con quegli occhi pieni di ammirazione e desiderio.

L’attesa aumentava e le sue gambe si facevano sempre più molli. L’attesa aumentava e lei sentiva crescere dentro quel mescolone, il mescolone delle cose che non gli aveva mai detto, di quelle che gli diceva troppo spesso e poi si pentiva, di quello che non riusciva a spiegare ma la annichilivano.

Erano già le 4 del pomeriggio. Ma dov’era? Aveva forse perso l’autobus?

O forse veniva in motorino. Forse era dovuto andare a fare qualche commissione per la mamma.

Le era venuto come un groppo in gola. Perché?

Sarebbe arrivato, non doveva temere. Lo sapeva che sarebbe arrivato.

Il tempo passava  e le luci fuori, quelle del Natale, si facevano violente, insinuavano sospetti, paure, disillusioni. Era triste quella stanza, era troppo triste dio bono.

Ma perché cazzo mi lasciano in una stanza così triste?

Si erano dimenticati di lei?

Lei che aveva dato sorrisi, fatica, lacrime. Lei a cui sembrava di fare sempre così tanto.

Lei aveva sempre e soltanto voluto un po’ d’amore.

Le salivano le lacrime.

Che sciocca.

Alle 4 e mezza era ancora lì davanti a quella finestra, truccata, profumata e con i capelli sgonfi. Aveva indossato la gonna, che lo faceva solo per lui.

Aspettava e intanto il groppo era diventato come un enorme sasso piantato in fondo alla gola.

Le braccia si erano fatte così deboli, le gambe molli.

Ecco, lo sapevo, in fondo al cuore lo sapevo. Anche lui si è dimenticato di me!

Finalmente suonò la porta.

Lo sapeva diobono che sarebbe arrivato, che era sabato e chi se ne frega se il compito di greco è andato male, ora esco, esco con lui, mi porterà sicuramente in Piazza e poi andiamo anche al cinema, quello parrocchiale che non abbiamo mica tanti soldi…

Andò ad aprire che il groppo sembrava solo un lontanissimo puntino, un’isola sperduta in un mare di aspettative.

Andò ad aprire gustando quella sensazione bellissima che era il miscuglio di cose che lui le produceva nel cuore.

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Aveva un sorriso largo quando sua figlia, coi suoi capelli tagliati a maschietto, con quel suo modo sempre lieve di fare le cose, anche quelle più dure, l’abbraccio con un “buongiorno” sussurrato nell’orecchio mentre la baciava.

“Ma non hai dormito oggi? Ti devi riposare, non ti fa bene stare sempre in piedi…” le disse mentre appoggiava sulla mensola il sacchetto con le medicine.

“Stavo aspettando…” disse lei.

“Stavo aspettando.” ripetè, quasi automaticamente.

“Poi, tu

finalmente

sei arrivata”.

Dedicato a mia nonna F.

[un grazie speciale a Veronica, Anna, Mirella, Marilù, le due Paole, Marcella, Roberta e tutti quelli che ieri sera erano al Rovescio. Sono stata bene, grazie a voi!]

3 commenti
  1. LaLena dice:

    Anch’io mi sono commossa… che fatica! Grazie di esserci su tutti i canali….Sei la mia Venezia 😉

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