Delirio in terza persona

“Il primo amore è quello che viene dopo molti altri ma non te lo dimentichi mai più”, le disse il suo amico Gianni. “Le persone importanti, per quanti giri tu faccia in questo mondo che a sua volta gira, prima o poi le incontri. Non sai mai il quando, il come e il perché, ma quando succede te ne accorgi!” continuò Antonio.

La vita è una piccola cosa senza importanza. Un equivoco, un gioco di specchi e di doppi, pensò lei mentre stava per perdere l’autobus. Abito in una città piccola, di quelle che non hanno i tram. Mica come le città grandi, mica come Milano. Qui il colore è il rosso dei mattoni.

C’era da aspettare, si strinse nel bavero di una giacca troppo primaverile per quell’inverno che si inghiottiva la luce. L’autobus l’aveva perso, dentro a una piazza che non aveva mai frequentato tanto ma chissà come mai le faceva sempre venire in mente molte cose. Come un rigurgito di vita passata, ricordava le facce delle persone, quelle sepolte dai giri del destino, quelle che il destino aveva sepolto e basta.

Pensò a quella volta che avrebbe voluto uscire di corsa dal bar e raggiungerlo per dirgli che si era sbagliato. Che lei non era così come aveva voluto fargli credere. Stava prendendo il caffè con un collega e lo aveva rivisto, che erano passati quasi 10 anni da quella volta che erano rimasti a guardare le stelle sui colli parlando di futuri, passati e possibilità trascorse.

Non aveva avuto il coraggio di mollare il caffè. Ci aveva pensato molte volte ma poi ecco, difficile spiegarlo, qualcosa l’aveva piantata lì, in quella piazza, in quel bar, mentre lui spariva dal suo mondo un’altra volta.

Pensò a un ragazzo di 17 anni che non conosceva, di cui aveva letto sul giornale e la cui vita era finita dentro al fiume, quello stesso fiume che l’aveva vista crescere. Aveva ricacciato indietro le lacrime, c’era il monitor a coprire quel senso di angoscia che aveva ricordato. Non lo conosceva e piangeva per lui, per la sua famiglia, per i suoi amici. Come quella volta. Un giorno mesto di inizio settembre. C’era caldo e gli occhiali si erano appannati per via delle lacrime mentre lei – dentro alla sua bara marrone – passava e finiva, finiva e passava. Per sempre.

Il cuore in frantumi. In mille pezzi. Come un anno prima.

Pensò al sorriso cristallino e ai piccoli biscottini dolci dei loro pomeriggi. Pensò a quel primo amore che aveva sbaragliato tutti quelli prima e che ora vive – a testa in giù – in un posto lontanissimo in fondo al mondo.

Pensò a sua figlia, al suo compagno.

Insieme non c’erano mai venuti in quella piazza.

Pensò che era troppo tempo che non faceva pensieri senza senso come adesso. Che era un po’ sciocco e forse sintomatico di qualcosa di matto in lei, mettersi a raccontare di se’ stessa in terza persona. “Ma chi cazzo sono io per arrogarmi il diritto di trasformarmi in un personaggio di carta?”

Il freddo pungeva. Antonio, Gianni, Giammaria.

Tutti quelli che le avevano parlato in quella mattina sparirono: arrivò l’autobus. Era ora di tornare alla prima persona singolare.

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