Mobbing

Agnese (nome di fantasia) è una delle lettrici più affezionate a questo blog.

Si è appena emancipata da una situazione di MOBBING che si protraeva da qualche anno e ha voluto raccontarmela, chiedendomi di pubblicarla, in modo che altri sappiano che c’è una via di uscita e che – soprattutto – è importante non farsi schiacciare.

Ecco il suo racconto.

Lavoravo da alcuni anni per una P.A. del mio paese. Mi sarei dovuta occupare di comunicazione. Dopo la maternità mi sembrava un’occasione interessante per rientrare nel “mondo” del lavoro, una manna dal cielo per una mamma precaria ormai abituata a fare i conti con progetti portati avanti gratuitamente e per la gloria.

Il mio capo era pieno di entusiasmo. Sapeva che avevo lavorato a Milano in passato, che avevo seguito progetti articolati e che – grazie al mio contributo – avevano vinto dei premi e mi aveva scelto per quello.

Gestiva l’ufficio comunicazione da burocrate e subito mi sembrò strano trovarmi in un luogo dove la carta e le delibere e le firme e le frasi in burocratese la facevano da padrone, ma pensai che era bello che avesse voglia di un cambiamento, che avesse il coraggio di chiamare una persona che non c’entrava nulla per svecchiare quel Sistema ottuso e fumoso.

Mi sbagliavo. Non me ne accorsi subito, ma mi sbagliavo. Il mio capo voleva fregiarsi di una collaborazione “al passo con i tempi” e contemporaneamente avere una segretaria di lusso (donna, ovviamente), che copiasse più e più volte dati sul sito dell’azienda, che cambiasse – a suo discrimine – barre in stanghette e viceversa e che sopportasse la sua puzza di sudore, il suo alito marciscente e la sua ottusa mentalità.

All’inizio pensavo fosse la gavetta. Mi diceva “Dai, prepara un progetto per questo” e contemporaneamente mi faceva fare lavori di basso livello, ma io ho sempre fatto tutto, mi sono sempre adattata, pensando che un professionista debba anche essere flessibile. I progetti però rimanevano nel cassetto, non se ne parlava quasi mai perché lui era troppo impegnato dalle tante “cose urgenti” che aveva da fare ogni giorno, tipo stampare TUTTE le mail che gli arrivavano e sottolinearle con l’evidenziatore o scrivere lettere su lettere da far protocollare.

I progetti prendevano polvere, le mie idee erano accolte con finto entusiasmo e poi messe nel dimenticatoio e il mio lavoro era ogni giorno più svilito. Spesso passavo intere giornate a NON FARE NULLA.

Al mattino gli chiedevo di cosa potevo occuparmi e lui mi rispondeva che ne avremmo parlato non appena avesse finito di “evadere la posta” e alla fine non se ne parlava più per tutto il giorno.

Eravamo in ufficio lui ed io. Entrare al mattino significava prendere confidenza, fin da subito, con l’afrore terribile che emanava il suo corpo: sembrava un chiaro messaggio respingente, non bella cosa per un addetto alla comunicazione, dirigente.

Al mio capo importava molto che io – con il mio contratto di co.co.co – passassi in ufficio le giornate in cui lui diceva (parole sue) fosse necessario “presidiare”. Anche se non arrivavano telefonate e gli venivano affidati incarichi di basso conto – mi fu quasi subito chiaro che la sua posizione era stata creata ad hoc ma era completamente svuotata di significato operativo – lui desiderava sentirsi fondamentale per la struttura e desiderava che io percepissi costantemente il senso di falsa urgenza che ammantava il suo lavoro. L’anno scorso ho dovuto cambiare il piano “vacanze” all’ultimo momento perché secondo lui avrei dovuto stare in ufficio il 5 agosto, a metà settimana, visto che lui faceva “solo una settimana di ferie” proprio in quel periodo. E’ stato a casa 3 settimane, alla fine, e non l’ho mai visto in ufficio un venerdì di luglio e agosto.

Dopo alcuni mesi che il mio (poco) lavoro era solo copiare e incollare i contenuti di altri, sostituire sillabe che lui mi segnalava prontamente stampando la pagina del sito incriminata e segnando con la penna rossa, come a scuola, i cambiamenti che avrei dovuto apportare, cominciai a pensare che forse non ero abbastanza brava per fare altro.

Strano. Fuori da lì ricominciavo a essere cercatissima per consulenze professionali e grazie alla mia rete, in molti mi davano grandi attestati di stima per i miei progetti personali.

Lì dentro facevo la piccola amanuense, oppure mi grattavo l’ombelico. Lui voleva controllare tutto e quando provavo a dare qualche consiglio e suggerimento, lo trattava come una piccola cosa da archiviare immediatamente.

Forse era l’unico tipo di lavoro che meritavo?

Nessuno dei miei colleghi mi prestava attenzione: era come se tutti mi ignorassero o – peggio – mi evitassero. Lui mi sembrava che fosse abbastanza amato e quindi pensavo fosse colpa mia.

Un giorno, dopo l’ennesima prova da copista che lui rivoluzionava in corso d’opera, facendomi sentire un criceto sulla ruota, sbottai, uscendo dall’ufficio evidentemente alterata. Incontrai una collega e capii, per la prima volta, che nessuno amava molto quel personaggio mediocre e frustrato che era il mio capo ma che l’alone di diffidenza provato nei suoi confronti aveva coinvolto, fino a quel momento, anche me.

Tornai in ufficio e cercai di spiegargli che ero una professionista, che stava sprecando un’occasione facendomi fare la scimmia, ma che se questo era tutto quello che desiderava, lo avrei fatto, ma solo con precise indicazioni.

Da quel giorno la mia vita peggiorò: smisi di andare ai pochi incontri a cui mi portava (come sua inutile valletta del niente), mi fece fare – se possibile – ancora meno.

Scoprii che mentre io ero lì a scaldare la sedia, da altri Servizi gli avevano chiesto di me, perché le mie competenze erano preziose per altri progetti e lui a tutti aveva detto che no, io ero troppo impegnata e non poteva permettersi di lasciarmi andare.

Scoprii che anche in passato si era comportato in maniera analoga. Mi si ruppe un velo. Un velo fatto di sensi di colpa, senso di inadeguatezza e dubbi sulla mia professionalità che erano ormai sfociati in insicurezza personale.

Quel velo si ruppe e ne uscì un cumulo di rabbia. Capii che il problema non ero io ma lui, era lui che – consapevole di essere un professionista dappoco – cercava di elevarsi umiliando gli altri.

In un modo terribile, condendo il tutto di finto buonismo, senza neanche la gloria della cattiveria, perché vile.

Quell’omuncolo cominciò a farmi fare etichette per le lettere da mandare in giro. Organizzava eventi con le scuole e io dovevo servire la merenda.

Mi demansionò ancora più di quanto non fosse possibile.

Intanto fuori da lì i progetti aumentavano e per tenere testa a tutti gli impegni dovevo lavorare anche alla notte. Il giorno che ho deciso di licenziarmi l’ho fatto consapevole del mio valore.

Penso che nessuno si possa permettere di trattare così un’altra persona e penso che sia sempre necessario tenere ferma la boccia sul proprio valore intrinseco, sulla propria dignità, che non deve essere calpestata.

Lui per un po’ era quasi riuscito a farmi sentire inadeguata e stupida, ma in realtà era lui l’inadeguato e lo stupido.

Il Puzzone – così avevo iniziato a chiamarlo in casa e con gli amici – si meritava che qualcuno lo denunciasse per mobbing.

Non l’ho fatto io però.

Non l’ho fatto perché sono una co.co.co. Non l’ho fatto perché non ho voluto perdere tempo. Non l’ho fatto perché sarebbe stato lungo e nessuno avrebbe testimoniato per me, perché non avevo reali rapporti con nessuno, per poter chiedere una mano.

Avrei dovuto forse. Ma non sempre si fanno le cose giuste. Non passa giorno che non pensi a chi verrà dopo di me.

Ci ho pensato anche quando me ne sono andata. Ecco cosa gli ho detto, sulla porta, in modo che altri sentissero, poco prima di lasciare – per sempre – quel posto:

“Prima di andare via volevo prendermi un minuto per dirti quello che penso di te: in tanti anni di lavoro non ho mai avuto un capo più mediocre. Ti volevo dire che devi solo ringraziare perché sono una signora e non ti ho denunciato per mobbing, ma è meglio che stai attento perché se ti comporti così con altri, la denuncia prima o poi la rischi. Mi hai demansionato dopo che mi sono lamentata chiedendoti di farmi lavorare, perché mi facevi fare la scimmia. Mi hai fatto fare cose assurde, come venire in ufficio il 24 dicembre (e tu eri a casa) per una fantomatica riunione che poi non si è mai tenuta. Non ti sai organizzare e hai l’ansia di controllo sugli altri. Mi rendo conto che quando si è persone mediocri come te, spaventi il fatto che ci siano invece professionisti seri, ma se tu fossi stato furbo, avresti valorizzato le mie qualità per averne un vantaggio, mentre hai solo tentato di umiliarmi. Per fortuna sono abbastanza centrata sulle mie qualità professionali per non cadere in queste trappole, ma davvero, ringrazia che non ti ho denunciato per mobbing e alla prossima persona cerca di riservare un trattamento migliore: in ogni caso ho lasciato il mio numero di cell a molte persone qui dentro, eventualmente spero glielo passino così le spiego io come funziona. Per altro, davvero, ringrazia di lavorare qui, perché in un’azienda privata ti avrebbero già buttato fuori a calci, mentre qui nessuno ti toglierà mai la sedia dal culo perché non interessa a nessuno cambiare le cose. Ringrazia e baciati i gomiti che non ti ho denunciato per mobbing! (detto sulla porta, con la porta aperta, rivolta verso il corridoio a beneficio di tutti gli altri uffici)”.

La storia di Agnese è la storia di tanti. Lei oggi è molto felice perché ha recuperato in dignità e salute. Fa la libera professionista, che non è tutto rose e fiori, ma cerca di farlo bene e con correttezza e passione. Dato che anche io, come lei, mi sono appena messa in proprio, ci tenevo a pubblicare questa testimonianza e a farle un grosso in bocca al lupo! Se il suo ex capo, per qualche motivo (ma non credo) dovesse leggere questa storia e riconoscersi, spero che trovi l’umiltà di rifletterci su per bene. E nel frattempo, si vergogni.
10 commenti
  1. silvia dice:

    brava Agnese e tutte le persone (non solo donne) che difendono con coraggio la loro dignità e libertà

  2. la meringa dice:

    In una cosa sola io avrei agito diversamente: avrei presentato denuncia di mobbing alla consigliera di parità per esempio. Perché noi donne siamo sempre quelle che soprassiedono perché “sarebbe stato lungo”. E questi loschi figuri sno sempre quelli che ne traggono giovamento. Il sistema offre delle possibilità di denuncia e tutte le donne devono sapere che ciò è possibile e che c’è qualcuno che sta lì (pagato con i soldi pubblici!) pagato per ascoltare il nostro disagio. Agnese però, cazzarola, avrei voluto essere una mosca per vedere la faccia che faceva il puzzone. 😉 Auguri per la tua nuova vita, cara!

  3. Titti dice:

    Come la capisco. Ho vissuto situazioni analoghe ma senza capire che si trattava di mobbing, perché ero troppo abituata ad essere sfruttata. Un giorno il mio capo si stava persino prendendo il merito per una mia iniziativa, purtroppo per lui ero alla scrivania accanto che lo fulminavo e allora ha ammesso che il lavoro era mio.

    Per non parlare di quando sei l’unica donna in un ufficio maschile e al mobbing si aggiunge quell’atteggiamento, oddio non so neanche definirlo bene, avete presente: sei una donna quindi posso trattarti da gallina e tu se sei brava sorridi.

    Ovviamente non ho mai sorriso e qualche volta li ho mandati palesemente dove dovevano andare.

    Oggi però chiederei consiglio alla consiglierà di parità (all’epoca forse neanche esisteva).

    Brava Agnese, fai tesoro dell’esperienza… il mondo è pieno di puzzoni 😛

  4. Stefania dice:

    Non l’ho mai considerato mobbing ma forse lo è: usare le persone serie e con senso di responsabilità, che finiscono sempre quello che iniziano, per far loro fare cose noiose e che altri farebbero male o lascerebbero a metà. E magari, le persone serie, le fanno anche velocemente perchè poi vorrebbero fare altro di più interessante! Quale persona è più utile per questo tipo di lavori, mentre le cose interessanti le fanno i chiacchieroni ed gli inconcludenti?

  5. Marilù dice:

    Ho collaborato con una persona che mi ha fatta sentire una vera incapace. Non voglio generalizzare ma le donne sono persino più cattive di certi capi uomini, non trovate? La mia ex capa è stata una pessima persona, arrivando addirittura a inventarsi inesistenti critiche alla mia persona da parte di altri fantomatici colleghi, tutto per non passare per cattiva. Giorno dopo giorno aveva lavorato a fondo per farmi sentire sempre inadeguata, inferiore, poco preparata. Poi di colpo ho aperto gli occhi e mi sono resa conto che il suo problema erano gli attestati di stima che invece ricevevo dall’esterno, una cosa che le provocava un fastidio tale da cercare in tutti i modi di farmi sentire inferiore a lei. L’unico modo per elevarsi, evidentemente. La vita poi è strana: quando sono andata via, ho trovato lavoro poco dopo. Ebbene, circa 3 – 4 mesi dopo una mia collega mi ha mostrato i 5 CV che la mia ex capa ha inviato qui nel corso dei mesi precedenti. Qui non è mai stata presa in considerazione perchè ritenuta (da voci nell’ambiente e dopo un colloquio) persona che mette zizzania e che avvelena i gruppi di lavoro. Almeno così mi è stato detto. Da un verso tutto ciò mi ha fatto piacere: sono proprio dove lei avrebbe voluto essere. Dall’altro verso però è iniziata una fase (che persiste, a distanza di 3 anni!) in cui l’ex capa non fa altro che stare a vedere cosa faccio io in azienda, per rubacchiare idee (perdonate, non posso essere più chiara di così). Non sarà più mobbing ma è comunque una cosa fastidiosissima. è stata l’esperienza di lavoro più brutta e svilente che mi sia mai capitata ma credo che questa sorte non sia toccata solo a me: ho visto andar via uno ad uno tutti i collaboratori e secondo me, con tanta frequenza, tutto ciò non è normale. Grazie per la testimonianza e per lo spazio concesso anche al mio sfogo.

  6. silvia dice:

    Marilù, purtroppo quando a fare mobbing sono le donne sanno essere davvero molto efficaci, con una perfidia sottile che lascia profonde tracce. Tu però ne sei uscita, ora cerca di lasciarti tutto alle spalle e non occuparti più di cosa fa

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