Tutto in una notte: cronache da Surrealia

Quando sono uscita dalla prima lezione del corso di alfabetizzazione ai social media in cui insegno, ho letto il messaggio di Tino. Erano le 22.30 e mi stavo fumando una sigaretta con mia mamma (che si, partecipa al corso da brava supporter della figlia!). Il male all’orecchio che da ieri mattina lo stuzzicava un po’ era peggiorato molto e non riusciva quasi più a stare dritto ne’ a parlare: guancia gonfia e male alla testa. Mi chiedeva se andavo per lui nella farmacia di Piazza Maggiore, quella aperta 24 ore su 24.

Tino è così: prima di convincerlo ad andare da un dottore deve essere proprio alla frutta, non crede nei pronto soccorsi – dove secondo lui sono tutti adepti del Dio Cortisone – e preferisce soffrire in silenzio fino quando non potrà recarsi dalla nostra dottoressa di famiglia.

Mia mamma mi ha proposto di rimanere a casa con Frollina, che ovviamente a quell’ora già dormiva, mentre noi saremmo potuti andare al pronto soccorso: che se non riesci nemmeno a camminare bene, non è bello.

Forse non ve l’ho detto, ma Frollina da giovedì scorso sembra la Pimpa. Ha preso la varicella. Niente di grave, sta meglio di noi la ragazza e ci ha pure preso un gran gusto a stare tappata in casa, dice che questi “fughini” da scuola per via della varicella le sono piaciuti molto e vorrebbe continuare.

Anche io sto molto bene con lei. Lo stesso non vale per i miei clienti: è da giovedì che lavoro a singhiozzo.

Comunque, torniamo a ieri sera.

Tino – miracolo! – in preda al dolore, accetta telefonicamente di essere accompagnato al pronto soccorso. Inforco la bicicletta e parto verso casa, mentre mia mamma prende l’autobus nella stessa direzione.

Alla prima pedalata deve essere successo qualcosa, un evento soprannaturale, magico, un varco Fringe tra due dimensioni. Sono stata risucchiata nella notte.

Il primo segno del fatto che non ero più nel mondo che avevo abitato fino a pochi minuti prima l’ho avuto all’altezza dei viali, mentre li attraversavo con la mia bici. Era un po’ tardi, è vero, ma non abbastanza da giustificare la Ka che – al semaforo sul viale – non si è fermata.

Ho visto letteralmente la morte in faccia. Sarei diventata una frittella se il destino non avesse provveduto: l’autobus su cui viaggiava mia madre, proprio in quel momento si è frapposto tra me e la macchina che non ha potuto non vederlo, nella sua enormità e ha frenato in maniera rocambolesca poco prima dell’incidente.

Il mio cuore, per un attimo, ha smesso di battere: subito dopo ho pensato quanto sarebbe stato ironico morire così, in mezzo al viale, mentre corro a casa per portare Tino all’ospedale.

Tino a casa era già pronto. Infagottato in una felpa, con il cappuccio interamente tirato in avanti per proteggere orecchio e occhi, sembrava uno Jedi in via di trasformazione ascetica (scusate, Frollina è diventata un’adepta di Guerre Stellari e ogni mio riferimento, ora, mi rendo conto che punta lì, ma abbiamo già rivisto tutti gli episodi almeno 6 volte nelle ultime 2 settimane).

Arrivati al Pronto Soccorso abbiamo trovato un buon parcheggio. E senza dover pagare il ticket. Che culo! ho pensato. Sarà di buon auspicio! ho pensato.

Poi siamo entrati. E il varco tra il mondo reale e quello surreale si è aperto una seconda volta e con un rumore soffice di accessi elettronici si è richiuso dietro di noi. Forse per sempre.

Tino è stato accolto all’accettazione, dove hanno valutato il suo grado di gravità e gli hanno messo il bollino “verde”. In effetti non stava mica morendo.

E’ iniziata l’attesa. Una lunga attesa. Durante la prima ora Tino è rimasto seduto per terra, nell’unica posizione che non gli dava dolore, con questo cappuccio grigio tirato sulla faccia e le gambe incrociate: un Siddharta auricolare.

Io ho riempito una “comodissima” sediola a buchi con il mio culo, sul quale dopo poco si sarebbe potuto giocare a tris. Erano le 23 quando siamo arrivati al P.S.

Alle 24 avevo già scansionato tutti i presenti, guardie comprese.

Sapevo chi c’era prima di noi e chi era arrivato dopo. Avevo sentito la storia della ragazzina che aveva mangiato qualcosa che le aveva trasformato la lingua in un enorme lampone e assistito alla scena della giovane con emicrania e nausea che si fa aria con la padella in cui avrebbe dovuto vomitare.

Alle 1.00 metà degli astanti aveva deciso di andarsene: qualcuno si era alzato, come Lazzaro, dalla seggiolina del pronto soccorso, essendo in attesa dalle 8 di sera era stato MIRACOLATO, il tempo gli aveva fatto passare coliche renali, problemi mandibolari e turbe mentali di ogni genere.

Tino continuava a peggiorare. Ma il suo codice non cambiava e i tempi di attesa si dilatavano: un codice rosso, un codice giallo, una nonnina confusa.

Ogni volta che sentivo entrare l’ambulanza, speravo fosse solo un parcheggio di fortuna e maledicevo (lo dico, l’ho detto) tutte le barelle che vedevo passare: altre ore di attesa per noi. Mi ero trasformata nel trionfo dell’egoismo: mors tua, vita mea.

Non so se ci avete mai fatto caso, ma quando si entra in un pronto soccorso, specialmente di notte, il mondo e le cose cambiano. Tu cambi. Sarà per l’effetto del neon, sarà il verde acido dei muri che a un certo punto da alla testa, ma al pronto soccorso abbiamo tutti la faccia, la pelle e i lineamenti da sfigati. Ci si aspetta che dietro ad ognuno ci sia una storia di disperazione, forse in un’altra vita siamo stati barboni allo sbando, forse siamo lì perché ci siamo feriti uccidendo qualcuno, forse siamo controfigure in un romanzo di Pennac.

Dopo 2 ore che stai in un luogo come la sala di attesa di un pronto soccorso, in cattività, poi succede qualcosa di unico: il tuo vicino, quello che è arrivato un minuto prima o un minuto dopo di te, diventa il tuo migliore amico.

A un certo punto hai bisogno di parlare, di inveire contro il Governo, contro il Sistema, contro i Medici che sicuramente staranno giocando a carte invece di chiamare il tuo numerino. Devi raccontare la tua storia, è matematico, la sfiga che ti ha condotto lì, forse un po’ cominci a crederci anche tu nel fatto che probabilmente sei un assassino a piede libero e allora tenti di convincere almeno il tuo vicino che non sia così. Alla terza ora di attesa ti chiedi dove abitavi prima, se la tua casa esiste ancora, se uscirai mai da quel posto, se Bologna, là fuori, è ancora la stessa di 5 ore fa.

Il tuo vicino ti ha già raccontato tutta la sua vita e quella dei suoi figli, hai scoperto che è razzista e che ucciderebbe tutti i “Marocc’eTunisia” che da lui, a Napoli, stanno bbuoni, mica come qui che gli lasciamo fare tutto quello che vogliono, ma è lo stesso, nel mondo fuori gli daresti fuoco, qui diventa il tuo migliore amico, l’appiglio per credere che prima o poi chiameranno il tuo nome.

Dopo 3 ore e mezzo Tino ha sbananato. Erano già passate alla grande le 2 del mattino.

Ho deciso che fosse il momento di trasformarmi in STM (SuperTranciaMaroni) e sono andata a piattolare dall’infermiere. “Il mio compagno non si regge in piedi, sta peggiorando, potete almeno venirlo a vedere?”. Dice che c’è un codice rosso e porcaputtana non hanno il tempo. Bene, allora sapete cosa faccio: adesso riempio di botte il mio compagno, così forse qualcuno dopo verrà ad aiutarlo, magari glielo date un codice rosso se lo trasformo in una maschera di sangue!

Alla seconda piattolata di STM finalmente un infermiere mi ha seguita. No, non è servito promettergli di poter giocare a tris sulla mia cellulite a quadretti per colpa delle sedie. Ho sporto il labbro e usato il mio sistema infallibile del “ti faccio sentire in colpa senza via di scampo”.

Finalmente alle 3.15 del mattino Tino è entrato in astanteria, lo hanno fatto sedere e io sono rimasta ad attendere fuori.

I miei amici del viaggio nel buco spazio temporale del P.S. nel frattempo avevano socializzato tra di loro. Tutti amici di tutti. Pakistani, montenegrini, italiani, donne, uomini: tutti a coccolarsi con una lamentela collettiva, un modo per sconfiggere la paura di essere inghiottiti in una dimensione parallela.

Le guardie in portineria, vestite con anfibi e pistole, vegliavano su di noi. C’era quello tozzo e basso e quello spilungone e magro come un’acciuga. Si scambiavano battute e raccontavano della loro terra, il Calabrese e il Veneto, ognuno fiero del proprio vino.

Ogni tanto dispensavano per noi una virtuale pacca sulla spalla, ci rincuoravano o semplicemente facevano vedere quanto erano duri. Alle 3.40 si è presentato un ragazzo. Un Marocc’eTunisia, a detta del mio vicino, con il naso fracassato da un pugno e la faccia piena di sangue. Ho subito pensato fosse stata la sua ragazza, magari anche lui aveva un’otite e da 3 giorni sostava nella sala d’aspetto…

Il ragazzo è stato medicato d’urgenza e poi è uscito. Non so, non ho capito, ha fatto molto in fretta. Fuori lo aspettava qualcuno e hanno cominciato a malmenarsi. Forse è un gioco, forse funziona proprio che vai a picchiarti davanti all’entrata del P.S e vince chi viene ricevuto prima, quello che ottiene il codice più “nobile”.

Le regole del mondo del P.S. sono diverse da quelle del mondo fuori, io ormai mi ero completamente immersa nel nuovo status e non ricordavo nemmeno più chi fosse quella che fa la blogger, che lavora con il web, che ha una bambina che dorme in un lettino (chissà se la rivedrò mai???) in un posto su un altro pianeta.

Io ero solo una donna in attesa, dentro a una sala in attesa, con il rumore delle macchinette del caffè e la mia nuova famiglia.

Le guardie hanno chiamato la polizia. Fuori Maschera di sangue continuava a picchiare, il bassEtozzo si è piantato a cercare di dividere i due contendenti e ha atteso le forze dell’ordine.

Che

forse

anche loro erano in qualche altro pronto soccorso del mondo

ad aspettare il loro turno

perché è passato un sacco di tempo prima che la volante spuntasse all’orizzonte.

Poi ad un tratto sono arrivati. E MascheraDiSangue si è trasformato. Si è inginocchiato ai piedi del poliziotto alto e aitante che tentava di dividerlo dall’amico e ha cominciato a piangere, a mani cinte, davanti a lui. Ha pianto tutte le sue lacrime, ha cominciato a parlare in arabo, strascicava, piangeva, si prostrava.

Lì ho temuto davvero che non avrei fatto più ritorno dalla mia notte. Tino era stato inghiottito dentro al pronto soccorso, io guardavo, inebetita, con le pile scariche e la colite e la faccia tirata da sfigata, un giovane ragazzo con il naso rotto che piange come un bambino di 2 anni ai piedi di un poliziotto che lo guarda un po’ perplesso.

Quando verso le 4 del mattino mi hanno chiamata come “parente di” e ho trovato Tino steso su una barella con la flebo di antibiotico e una mascherina davanti alla bocca ho provato un senso di sollievo. Per lo meno la nostra attesa era finita. Qualcuno ci stava dicendo che cosa era successo all’orecchio di Tino.

Ha l’otite, un’otite pesante complicata da un’infezione (probabilmente con il vento dei giorni scorsi gli è entrata un po’ di polvere che ha complicato le cose) ma non diventerà sordo (ecco, giuro che per un attimo l’ho pensato, da brava ipocondriaca ;-)).

Ha atteso l’otorino che arrivava alle 7.3o su una barella. Io invece sono tornata a casa. Dalla bambina. Il varco si è riaperto e sono uscita.

Ho salutato gli amici: il mio vicino, il ragazzo pakistano, gli zingari che ridacchiavano di fronte alla scena di MascheraDiSangue, insieme alla signora razzista che aveva sibilato “Io darei fuoco a tutti quanti questi qua” indicando il manesco e guardandomi con fare sornione e complice, ma chissà come mai, magia della realtà parallela, per l’incantesimo dell’attesa, confidava i suoi desideri proprio a loro, suoi compagni di viaggio, non “diversi” ma “in attesa” come lei, nella nostra realtà parallela della notte.

Sono tornata a casa. Restava l’odore. Restava la preoccupazione per Tino su quella barella, ma anche la voglia che passassero in fretta quelle due ore per poterlo riportare a casa. Stamattina frollina si è svegliata, papà ancora non c’era, mi ha detto “Mamma vengo con te, voglio vedere anche io il Pronto Soccorso!”.

“Non figlia mia, no, tu vai dai nonni, tu devi salvarti, tu devi evitare di venire inghiottita dalla realtà parallela, dall’evento fringe…”. Per fortuna l’ho solo pensato.

[immagine di copertina: patrizia_ferri -flickr.com – licenza CC]

8 commenti
  1. extramamma dice:

    Che storia pazzesca! L’hai scritta benissimo solo che mi dispiace che sia vera, che Tino abbia sofferto così tanto.
    Auguro una notte al PS anche al guidatore/trice della KA.

    Bello il nuovo layout!

    anch’io sono una STM

  2. Panzallaria dice:

    ciao tesoro @extramamma! è qualche giorno che ti penso assai intensamente, bisogna che noi stm ci sentiamo via telefono. spero che la tua avventura di scrittrice vada alla grande. un abbraccio

  3. Mammamsterdam dice:

    Ecco, adesso lo sappiamo, voi dovevte svegliare Frollina e poi tutta stranita dal risveglio e possibilmente piangente e in versione Pimpa arrivavate al pronto soccorso, la guardavano, vi davano un codice bordeaux , lo appiccicavate di nascosto a Tino e via, in 5 minuti la flebo.

    Coraggio.

  4. MaterEtLabora dice:

    che palle queste cose. io quando mi ci sono trovata (e non in situaz. così gravi ) ho dato di matto. auguri a tino:)) e alla piccola pimpa:)

  5. Mela dice:

    storia incredibile. sembra la sceneggiatura di un film. in questi giorni anch’io ho avuto a che fare con p.s. accompagnando un fratello: ai confini della realtà, veramente, varia umanità, una visione strana delle cose. si abbassano le difese, si ritrovano relazioni, si assume uno sguardo diverso sulle cose, le percezioni sono amplificate. l’hai descritto benissimo e sei qui a raccontarlo, mamma mia. e tino è al sicuro.

  6. Margherita (Apprendista mamma) dice:

    Mio marito ci ha lavorato in un Pronto Soccorso. I suoi racconti, se possibile, erano ancora più surreali del tuo. Se continuano a tagliare nella Sanità, le attese saranno sempre più lunghe. I medici sono pochi (e fanno turni massacranti). Qualche settimana fa siamo state anche noi al P.S.; mia figlia si è svegliata con la faccia gonfia e rossa, sembrava un pugile dopo un incontro di quelli duri (una reazione orticariode a non abbiamo capito cosa). Ci hanno dato un codice giallo e hanno chiesto la consulenza di un pediatra. Al P.S. abbiamo risolto in poco tempo, ma per ottenere la consulenza del pediatra ci sono volute 4 ore. Quando io, preoccupata per la faccia gonfia di mia figlia, mi sono trasformata in STM e ho fermato il primo pediatra che passava in corridoio, quello mi ha risposto “Signora, io ho fatto la notte, dovrei essere a casa adesso …” Era mezzogiorno, il che vuol dire che quel medico era in servizio da 16 ore e, conoscendo bene il problema dei turni massacranti, non ho avuto il coraggio di insistere. Indovina chi ha visitato la bimba dopo mezz’ora? Lui! Quando siamo andate via, poco dopo le 13.00, quel pediatra era ancora lì.
    Siamo tutti nella stessa barca: pazienti e personale ospedaliero. Una barca, che se continuano a tagliare, farà molta fatica a restare a galla. Scusa la ventata di pessimismo, ma queste storie mi fanno sempre riflettere molto. Spero tanto che Tino stia bene e che si rimetta prestissimo.

  7. sara dice:

    Commento perché questo racconto suona così famigliare…chi non ci è passato a modo suo? Anche io ho tanti ricordi del Pronto Soccorso delle Molinette di Torino in questi 35 anni..triste, straniante, ansiogeno. Davvero è un altro pianeta nel cuore della città. Serve per farci paensare alla vita, cercare di capirla, ricordare. Poi esci e torni a pensare alla cazzate. Certo ci sono dei giorni, come per te, straordinariamente pieni di coincidenze e altri giorni che non succede nulla. Per l’otite…anche di quella abbiamo fatto esperienza in famiglia questa primavera. Noi ci ammaliamo in primavera. Coraggio e complimenti!

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