Quando ero cinna. Una volta

Quando ero cinna abitavo in questo paesello. Non c’era molto da fare, tranne salire sugli alberi oppure camminare in lungo e in largo, magari sperando di incontrare il cinno che ti faceva battere il cuore. Io poi andavo anche in piscina a nuotare.

Comunque.

Abitavo di fianco a un laghetto (anzi 2) artificiale, che era venuto su insieme alla mia casa. La mia casa era una casa a schiera, di quelle che piacevano molto negli anni ’80, ma a ben guardare sembrano dei cubi antiatomici.

Ogni casina con il suo giardino: una attaccata alla sua vicina. A schiera.

Io ci avevo delle amiche (che poi ci ho ancora) e insieme salivamo sugli alberi, andavamo a nuotare, facevamo gli scherzi telefonici e giravamo per il paese. Io ci avevo la fissa delle avventure, non quelle che si limona, era più una fissa per il sali sugli alberi, fatti male e torna a casa strisciando tra mille difficoltà.

Una volta convinsi la mia amica Manolita (così la chiamavamo perché assomigliava a Mafalda per i ricci e anche per certi borbottii) ad inoltrarci in mezzo a una radura che c’era vicino a uno di questi laghetti. Mi sembrava un’avventura interessante.

C’erano alberi rampicanti, liane e mostri selvaggi. Così mi sembrava. Così me lo ricordo. Io e la Manolita prendemmo anche dei panini  e una coperta. Per fare un pic nic. Prendemmo anche dei libri, per fare finta di studiare. Arrivammo alla radura: distava 200 metri da casa nostra e ci mettemmo ad esplorarla. Ero convinta che avremmo trovato delle cose. Ci eravamo fatte un viaggio pazzesco, che lì c’erano certamente dei ciotoli di qualche civiltà sepolta.

Quando ci trovammo in mezzo a tutta questa verzura qualcosa lo trovammo davvero.

Tutti accartocciati per terra c’erano dei pezzi di giornale. Alcuni svolazzavano qua e là. Ne raccogliemmo un paio emozionatissime: un mistero, era sicuramente un mistero da risolvere.

Sopra a quei pezzi di carta di giornale c’erano delle immagini.

Le immagini – ci mettemmo un po’ a capirlo – erano strane. Non riuscivo a staccare gli occhi. Non riuscivo a non guardare. Rimanemmo in silenzio qualche minuto, ci passavamo questi pezzi di carta in maniera meccanica. Il cuore batteva, c’era un senso di viscido, qualcosa di morboso che mi spingeva lì, su quelle figure.

Riconobbi un cazzo. Nero. Pensai: “il pisello dei grandi è una banana nera”. C’erano vagine e bocche spalancate.

Avevamo trovato il tesoro di qualcuno: una montagna di giornaletti pornografici.

Fu il mio primo approccio con il sesso.

Mi schifavano quelle immagini, eppure ne ero attratta, come quando si sta su un palazzo molto alto, si guarda giù e si ha paura che l’altezza ti spinga a cadere.

Erano gli anni 80. Internet non esisteva ancora.

Il tesoro dissepolto non era un gran che, ma noi rimanemmo convinte, a lungo, che quella radura nascondesse un mistero.

 

4 commenti
  1. Danilo masotti dice:

    A questo punto devi assolutamente leggere DEI BAMBINI NON SI SA NIENTE di Simona Vinci

  2. Fabio Consoli dice:

    E poi, c’era sempre chi diceva: “gùerda chì cinàz…” Ma penso che guardando quelli di oggi, rimpiangano i cinni di una volta.
    Bellissimo il tuo racconto, si senta tutto il sapore della bassa, dell’ emilianità e della spensierata gioventù, anche se già contaminato e sporcato da quella che ora è una piaga, la pornografia.

  3. Mammamsterdam dice:

    si, vabbè, noi avevamo la spiaggia e in inverno le cabine sono cubi di cemento senza porta dove i bambini grandi andavano e non si capiva perché noi piccoli non ci dovevamo avvicinare. Mi sa che leggevano i fumetti porno, mi sa.

  4. la coniglia dice:

    ma a vedere quelle foto hai capito qualcosa di cosa stava avvenendo? io mi ricordo che la prima volta che mi fecero vedere foto porno nonostante sapessi la teoria non ci capii nulla!

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